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Elia Davolio, la felicità è un balletto classico

 

Elia Davolio, ballerino classico

(di Massimo Bellei)

Ho incontrato Elia Davolio (da Fosco al grattacielo, luogo principe per queste cose senza nulla togliere agli altri locali “locali”), un ventunenne del paese che è ballerino classico, ha scollinato le fatiche per diventarlo, ha iniziato a viverne e si prepara a tentare un grande salto.
L’incontro con Elia è stata mezz’ora di freschezza, finezza e amore per la vita e la danza che fanno bene. Tento di condividerlo con voi che leggete, e consiglio vivamente: occhi e orecchie sempre aperti!

Elia, cos’è la danza per te?
Per me la danza è un modo di esprimersi, penso il modo più facile per una persona, perché ho “tutto corpo” a disposizione. Così è stato anche nella storia, nel senso che l’uomo prima di parlare si esprimeva con i gesti, e la danza è il gesto. Quindi per me è il modo non più facile – perché non lo è per nulla – ma più bello per esprimere ciò che tu hai dentro: una storia, un racconto o un’emozione. Attraverso questo, poi, unisce perché arrivi a una seconda persona, e da qui a una terza, a una quarta: è una comunicazione.

Com’è, il tuo modo di danzare?
La danza è una, ma poi ognuno ha il suo. Io sono Elia, quell’altra è una persona “ics”, siamo diversi, abbiamo due modi di esprimerci differenti, sebbene i passi siano gli stessi. Nella danza classica c’è un canone, una regola: il braccio lo devi tenere così, o colà… però nell’insieme puoi esprimere cose che non sono le stesse. Puoi fare gli stessi passi ma non dire la medesima cosa, non avere la stessa espressione, dipende dalle persone. Nei balletti di repertorio interpreti dei ruoli, nei quali ti puoi ritrovare più o meno facilmente. Ti faccio un esempio: nel 2017 dovevo interpretare il torero di Carmen, un personaggio molto vanitoso, che “se la crede”; esattamente all’opposto della mia personalità. Come ho fatto? Ognuno di noi ha tante qualità, anche difetti del carattere, che poi tira fuori in queste occasioni. Una persona può essere più buona ma ha anche un lato cattivo. Se devi interpretare un personaggio cattivo sarà più difficile per te ma tirerai fuori quel poco di cattivo che hai dentro di te; forse è un esempio un po’ brutale…

E’ molto difficile…
La parte interpretativa per me è la più difficile. Uno pensa: i passi, l’elasticità, la coordinazione… sì anche quello… c’è tutto un lavoro. Ma quello che arriva alla maggior parte del pubblico non è tanto la precisione dei passi (quella lo guarda il critico di danza, che è la minima parte) ma ciò che esprime la parte “di sopra”: la gestualità delle braccia, del volto.

Quando hai deciso “io divento un ballerino classico”?
Io in realtà… non è stato un momento preciso, ma un susseguirsi di un percorso. Io non ho iniziato la danza classica per volere mio, io ho iniziato a 8 anni danze popolari, danze folk, con un bel gruppetto per divertimento, danze che provengono da Israele (Terra di danza). Ci andavano mia mamma e mia sorella più grande.
In questo gruppo c’erano pochi ragazzini: avevamo il piacere di danzare, di ballare, abbiamo fatto tanti spettacoli. Finché i miei insegnanti hanno consigliato ai miei genitori di coltivare questa mia passione, e l’unica scuola professionale che c’era a Reggio era la Cosi Stefanescu. Una scuola tosta, perché la danza è tosta. Io sono contrario alle scuole amatoriali, non puoi pensare di fare la danza per divertimento… sì, è anche divertimento ma soprattutto disciplina, costanza, rigore. Sono stati otto anni di studio, loro mi hanno formato completamente.
E’ pesante soprattutto perché devi portare avanti sia la scuola del mattino (le medie, le superiori) che la scuola di danza al pomeriggio. Devi riuscire a conciliare queste due cose, non è semplice.

L’età in cui gli amici fanno basket o calcio… cosa dicevano?
Sono sincero (un bel sorriso accompagna queste parole): i primi tempi l’ho tenuto nascosto, lo sapevano solo i miei genitori. Temevo un po’ che il maschietto che fa danza fosse visto un po’ così. In realtà quando si è venuto a sapere (lo disse la mia insegnate di musica in classe) è andata poi bene, non ho mai avuto critiche. Soprattutto dagli adulti ho sempre avuto apprezzamenti.

E il resto del tuo percorso?
Mi sono diplomato nel giugno di 3 anni fa. Poi per mia fortuna ho iniziato subito a lavorare all’Arena di Verona per la stagione estiva delle Opere. Solo due mesi dopo mi hanno preso al Balletto del Sud a Lecce dove sono rimasto fino a maggio 2018. In seguito un infortunio, la relativa operazione e poi ho deciso di venire via.

Ti è capitato il momento “voglio smettere”? E come ne sei uscito?
Tante volte in cui l’ho vista così dura, così difficile da chiedermi “ma ne vale così tanto la pena?”. La danza comporta tanti sacrifici, tanti, perché è una cosa bella. Tutto ciò che è bello comporta sacrificio e fatica. Soprattutto in questo periodo. Avendo lasciato il lavoro a Lecce mi capita di dover fare audizioni e il problema è che non sempre vanno bene. Non sempre riesci a fare contratti, e ci vogliono tanti soldi. E i ballerini normalmente non hanno tanti soldi, nel senso che vivono di passione. Sacrifici e rinunce, ma le fai volentieri, per qualcosa che ti piace. A volte sono così tante: lavorare lontano, lontano dalla famiglia, prendi il minimo indispensabile per mantenerti, sì spesso me lo sono chiesto. E ora sto cercando lavoro in Germania, dove la danza è molto seguita, ci sono tante opportunità. Il problema è che siamo in tanti uomini che cercano.

Infine ho chiesto a Elia: “sei felice?”.
Mi ha risposto con uno sguardo e un sorriso. Mi ha risposto con tutto il suo corpo, come si conviene ad un ballerino classico che è riuscito a trasmettere al suo pubblico ciò che voleva dirgli. In bocca al lupo, ragazzo dallo sguardo terso che grazie alla fatica riesce a vedere ben lontano, dal fisico di danzatore classico, dall’orizzonte vasto, come la voglia di Bellezza.

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